L’insana agricoltura della Ue

Puntare a pratiche di riequilibrio dei suoli e degli agroecosistemi non comporta necessariamente l’adozione di metodologie bioeconomiche che, di per sé, non sono né “biologiche”, né “rigenerative”. I progressi della strategia bioeconomica indicati dalla Commissione Europea sono orientati ad assumersi il ruolo di consolidare e aggiornare le logiche operative dell’agroindustria. Le merci agricole vengono rubricate come «prodotti bioeconomici» in quanto la bioeconomy consiste nella produzione e trasformazione industriale di materia organica. Occorrerebbe invece tener conto della storia dei sistemi agroalimentari locali e regionali, considerando gli impatti socioecologici che i modelli produttivi monocolturali hanno impresso all’agricoltura e all’allevamento italiani fin dal secolo scorso. Dovremmo dunque sviluppare il pluralismo dei modelli agricoli, rivitalizzando l’agricoltura contadina e forme agropastorali e policolturali di attivazione degli ecosistemi rurali e favorire le multiformi pratiche dell’agroecologia, a bassa intensità di capitali ma ad alta intensità di lavoro, di esperienze collettive e di conoscenze scientifiche.

Dagli anni Sessanta del Novecento, l’agricoltura industriale si è affermata come paradigma produttivo dominante nel mondo rurale europeo e italiano. Ai giorni nostri invece è stata la strategia bioeconomica europea ad assumersi il ruolo di consolidare e aggiornare le logiche operative dell’agroindustria. Le merci agricole vengono oggi rubricate come «prodotti bioeconomici» in quanto la bioeconomy consiste nella produzione e trasformazione industriale di materia organica, escludendo i materiali realizzati da forme fossili di carbonio. L’estrazione e trasformazione di materie prime alimentari dai sistemi naturali e coltivati – terrestri o acquatici – fornisce perciò cibo per le nostre tavole, nonché fibre e altri prodotti no food per vari tipi di manifatture.

La bioeconomia dei giorni nostri è un sistema di monocolture finalizzate alla trasformazione merceologica di biomasse, ma lo stesso non può dirsi dell’agricoltura, la quale per quanto possa risultare “agganciata” alla bioeconomia non è certo un’industria qualunque.  Le forme durevoli di agricoltura sono infatti storicamente fondate sul mantenimento di rapporti simbiotici tra insediamenti umani e mondo naturale, e si radicano nelle invarianti strutturali dei territori così come nei saperi patrimoniali locali. Conoscerle ci induce alla lungimiranza. Difatti a che ci servirà creare oggi le condizioni affinché innovativi prodotti da profitto trovino sbocchi di mercato se sul lungo periodo  ci saremo rivelati incapaci di abitare in modo appropriato i biomi planetari?

Le innovazioni produttive non dovrebbero pregiudicare la tutela della biodiversità, le funzioni ecosistemiche dei corpi idrici, le qualità nutritive dei cibi, ecc. In altri termini: occorre tenere conto della storia dei sistemi agroalimentari locali e regionali, considerando gli impatti socioecologici che i modelli produttivi monocolturali hanno impresso all’agricoltura e all’allevamento italiani fin dal secolo scorso. Ma puntare a pratiche di riequilibrio dei suoli e degli agroecosistemi non comporta obbligatoriamente l’adozione di metodologie bioeconomiche (le quali non sono di per se stesse né “biologiche”, né “rigenerative”).

La gran parte delle porzioni di territorio che con linguaggio colloquiale chiamiamo «campagne» è stata definita Aree Interne (e svantaggiate quanto a offerta di trasporti collettivi, sanità, istruzione universitaria e altri servizi). Per l’Istat al 1° gennaio 2019 lo erano oltre la metà dei comuni italiani e circa il 60% della superficie nazionale su cui viveva appena il 21,9% della popolazione italiana. L’attuale strategia bioeconomica potrà forse contribuire a mitigare gli squilibri demografici del Paese e di questi territori in via di spopolamento? Non lo credo affatto, almeno finché i residenti rurali saranno costretti a svendere la loro forza lavoro e i loro prodotti per “restare competitivi”.

Il greening dei sistemi agricoli tende difatti a rendere sempre più spinto lo sfruttamento delle risorse vegetali e animali, servendosi di tecniche sofisticate (agro-digitalizzazione, «industria 4.0», Ogm, ecc.). Ma questi sistemi produttivi progettati per aziende medio-grandi impiegano sempre meno lavoro umano. Le vigenti condizioni tecnologiche e politiche favoriscono perciò la concentrazione fondiaria in poche mani a scapito dell’agricoltura di piccola scala e a modelli diffusi di formazione del reddito.

E allontanandosi da campagne forse più produttive ma umanamente desertificate, le popolazioni continueranno ad ammassarsi nelle aree urbane, aggravandone le crisi sociali, ambientali e sanitarie. Bisognerebbe invece rendere possibile il pluralismo dei modelli agricoli, rivitalizzando l’agricoltura contadina e forme agropastorali e policolturali di attivazione degli ecosistemi rurali. Per ristrutturare consapevolmente i nostri modelli agroalimentari dovremmo favorire le multiformi pratiche dell’agroecologia, a bassa intensità di capitali ma ad alta intensità di lavoro, di esperienze collettive e di conoscenze scientifiche.

di Fabio Parascandolo

Fonte: Comune-Info

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