La Rivoluzione del Grano

di Gabriele Bindi

18 centesimi al chilo. È il prezzo di vendita del grano duro stabilito dalle borse. Gli agricoltori italiani non ce la fanno più. Nei grandi porti italiani attraccano le navi cariche di grano straniero, che costa meno e che piace alle industrie alimentari. Le stesse che si ammantano del titolo made in Italy. Proprio così, importiamo tra il 30 e il 40% del grano duro necessario al nostro fabbisogno, quota che arriva anche al 75% per il grano tenero che serve per fare pane, biscotti e altri prodotti trasformati, su cui poi mettiamo il bollino del prodotto tipico italiano.

Se sentite le industrie del cibo vi diranno che è assolutamente necessario importare grani cosiddetti di qualità, o grani di forza, prodotti in Canada, Ucraina o chissà dove. I pastifici industriali preferiscono lavorare farine in grado di reggere trattamenti impetuosi e garantire grande elasticità, a discapito della nostra salute. Farine che devono funzionare bene, come il cemento o alla colla per le mattonelle, costano poco e fanno un glutine tenace. Ideali per il pizzaiolo e il fornaio che lavorano di fretta. Per i pastifici che fanno grandi quantità. E per le farmacie: perché la forza, l’elasticità, la resistenza del glutine sono le stesse caratteristiche che oggi ci fanno ammalare.

È l’ora di passare all’azione! Il made in Italy con grano canadese deve essere messo fuorilegge, tanto più che si tratta di un grano che viene regolarmente irrorato di glifosato poco prima della raccolta.

I consumatori devono sapere che pane stanno mangiando, da dove viene la farina, chi ha prodotto quel grano. Diffidate del pane industriale, comprate la pasta da piccole aziende biologiche di qualità. E pagate un prezzo che possa ripagare l’agricoltore!

Gli agricoltori devono chiedersi che tipo di grano stanno coltivando, che cibo producono, come stanno trattando la terra. La verità è che il piccolo contadino, se non riesce a chiudere la filiera, o a inserirsi in un circolo economico virtuoso, ha ben poche possibilità di guadagnarsi da vivere. Meglio mettersi a coltivare kiwi, pomodori, uva e lasciare il frumento alla produzione di grandi aziende meccanizzate, che dispongono dei mezzi e della forza economica per stare sul mercato e dominarlo. Agricoltori che si rendono complici di un ingranaggio ben oliato, che impone varietà dei semi, fertilizzanti e fitofarmaci e che ha espropriato le campagne di ogni cultura e sapere.

C’è un’altra Italia che la guerra del grano l’ha già vinta. Ho appena concluso un lungo viaggio in Italia tra le nuove filiere del pane. Ho incontrato persone che piantano alberi, amici che si scambiano semi, associazioni che organizzano feste per la mietitura, contadini che si mettono in rete, per condividere una mietitrebbia o acquistare un pastificio. Mulini che hanno ripreso a girare, e riforniscono i consumatori locali. C’è un gran fermento culturale nelle campagne, che ruota attorno ai grani cosiddetti antichi. Grani più digeribili, che regalano altri sapori. Grani che non hanno bisogno di fertilizzanti, e pesticidi, ma solo delle rotazioni. Grani che rendono meno ma vengono pagati il doppio.

Non sono la panacea per tutti i mali, ma l’inizio di un cambiamento che parte dai campi coltivati. E dal principale alimento di tutta la nazione e del mondo intero: il grano. Ditemi se è poco!

Fonte: Nuova Terra

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