Il motore dell’economia che condiziona il mondo, le relazioni sociali e la vita di ogni giorno è l’avidità, cioè il profitto, l’accumulazione, la rendita: il risultato non può che essere ostilità e antagonismo tra le persone e tra le comunità. Scrive Paolo Cacciari: «La radice della guerra – se davvero la si volesse trovare per estirpare – va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione distribuzione e riproduzione oggi trionfanti a ogni latitudine. Un sistema mortifero, biocida… Per “ripudiare” la guerra è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, “war free”, prima di tutto. Gli economisti della pace nel loro ottimismo ci dicono invece che sarebbe possibile ripensare l’economia togliendo il fucile dalla spalla del mercato. Vorremmo sperare fosse vero…»
Esiste una branca dell’economia che studia l’economia di pace. Affonda le radici nel pacifismo liberale dell’Illuminismo, da Montesquieu a Kant, incontra Jeremy Bentham e Herbert Spencer, approda nel premio nobel Norman Angell per rivivere dopo la seconda guerra mondiale con Keynes, Kenneth Boulding e gli Econimist for Peace and Security, da ultimo è stata ravvivata dal lavoro di Raul Caruso, Economia della pace (il mulino, 2022). Gli economisti della pace studiano quali sono le condizioni economiche più favorevoli ad evitare conflitti armati tra gli stati nazionali e al loro interno. Il loro approccio è volutamente “a-morale”, non fanno leva sulla dimensione etica, deliberatamente si limitano a dimostrare che le guerre non sono convenienti da un punto di vista strettamente economico, nemmeno per i presunti vincitori. Applicando criteri di valutazione “costi-opportunità” della macroeconomia classica (usando anche i più sofisticati modelli matematici) dimostrano che “a conti fatti” il solo mantenimento di uno stato permanete di deterrenza armata anche in “tempo di pace”, con il necessario ammodernamento continuo degli apparati militari, sottrae denaro allo sviluppo economico e sociale. A ciò va aggiunta la distruzione netta e diretta di risorse materiali nelle inevitabili conflagrazioni armate dei conflitti (perdita di capitali fisso, umano e sociale).
Gli economisti della pace sanno bene che le guerre non sono causate solamente da ragioni economiche, dalla volontà di appropriazione violenta di ricchezze e risorse altrui. Sappiamo che le guerre hanno origine nel profondo oscuro dell’animo umano e, più propriamente, in quello maschile. Il grembo che genera le guerre non è certo di donna; è da ricercare nelle volontà di conquista e di dominio, nell’impulso di sopraffazione che porta all’odio verso chi non si sottomette e giunge a ricercarne la morte; si annida nell’hybris, nell’avidità, nel controllo totale che giunge a sopprimere ogni forma di vita, Delenda Carthago. Ma è sicuro che nelle politiche di guerra tra stati un ruolo fondamentale e scatenante ce l’hanno gli interessi economici, la volontà di far prevalere la propria posizione sui mercati, le proprie “ragioni di scambio” nei rapporti commerciali.
Gli economisti della pace ritengono che dimostrare la non convenienza della guerra per il buon funzionamento dell’economia e il benessere dei popoli sia un argomento essenziale, realistico e forte tale da convincere i governi e i parlamenti a non intraprendere politiche dispendiose di riarmo e militarizzazione. Buoni esempi di questo modo di vedere le cose ci sono stati forniti in questi giorni da Jeffrey D. Sachs (consigliere del Segretario generale dell’Onu Antònio Guterres e presidente del Sustainable Development Solution Network delle Nazioni Unite) quando scrive: “Il più grande nemico dello sviluppo economico è la guerra” (Cosa l’Ucraina deve imparare dall’Afghanistan, in Other News 20/02/2023) e da un gruppo di economisti keynesiani di sinistra, tra cui Emiliano Brancaccio copromotore dell’appello The Economic Conditions for the Peace (pubblicato dal Financial Times il 17/02/2023) che chiede di “creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno”.
Chiediamoci allora: cosa impedisce il recepimento di una così stringente, persino ovvia, argomentazione contro le politiche di guerra? Il “complesso militare-industriale” (che già spaventava un presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower in piena guerra fredda), gli strateghi dei ministeri della guerra e i loro portavoce dei media che vanno per la maggiore sostengono tesi diametralmente opposte a quelle degli economisti per la pace. Secondo loro le spese per la difesa e la sicurezza nazionale sono il principale motore della crescita economica. Per varie ragioni. Perché proteggono l’espansione della libera iniziativa economica dai nemici dell’integrazione dei mercati a scala mondiale. Detto in altri termini, le corazzate di un tempo e i missili supersonici di oggi svolgono il compito di presidiare gli interessi delle imprese – e degli stati cui afferiscono – ovunque essi siano messi in pericolo. Poi le spese militari sono utili perché finanziano l’innovazione tecnologica più avanzata, su cui si basa la produttività e la competitività dell’industria. Non dimentichiamo poi della nota funzione “anticiclica” della guerra: distruggere per ricostruire. Il “capitalismo dei disastri” (Noemi Klein) è un volano sicuro per innescare nuovi cicli di accumulazione e la risalita del Pil. Ma a me pare che vi sia un altro elemento che fa delle politiche di guerra un pilastro dell’attuale assetto socioeconomico e che potremmo chiamare warfare state. Le spese statali per la sicurezza interna ed esterna (eserciti, polizie, secondini, guardie giurate, corpi mercenari vari e relativi apparati tecnologici di sorveglianza a distanza) forniscono l’offerta di lavoro in “ultima istanza” per la tenuta del consenso del sistema economico nel suo complesso. I Guard Labour (lavoratori con funzioni di controllo e vigilanza armata) negli Stati Uniti costituivano già dieci anni fa (ultimi dati che sono riuscito a reperire) il 26,1% dell’intera forza lavoro occupata, risultando così il comparto economico al primo posto per consistenza occupazionale. Per avere un’idea del suo peso basti ricordare che nel periodo del massimo sforzo bellico durante la seconda guerra mondiale gli occupati nella sicurezza negli Usa superavano di poco il 40% delle forze attive. Il lavoro dedicato alla sicurezza registra i costi economici della sfiducia che intercorre nelle relazioni umane e non incrementa (direttamente, almeno) la formazione di nuovi capitali. È insomma – come affermano i nostri economisti per la pace – una enorme spesa improduttiva.
Siamo immersi in un’economia di guerra. La nostra è già un’economia che funziona per e con la guerra. I militari hanno vinto la guerra in tempo di pace. Basta dare un’occhiata ai dati SIPRI sull’andamento delle spese militari dirette degli stati. Dopo un breve periodo di diminuzione dal 1989 al 1998, che ha consentito un discreto risparmio (“dividendo di pace”), dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e l’avanzata della globalizzazione le spese militari (dal 1992 al 2014) sono tornate a salire a tassi di crescita impressionanti: 650% in Cina, 780% in Algeria, 430% in Qatar, 230% in Arabia Saudita, 200% in Brasile, 190% in India. Attualmente sono in corso 75 missioni Onu di peacekeeping. La guerra in Ucraina sta spingendo ancora più in alto la richiesta dei militari per ottenere un aumento delle loro dotazioni. Volodymyr Zelensky fa da apripista. Nei paesi membri della Nato siamo oltre il 2% del Pil necessari per far fronte ai “campi di battaglia del futuro” (lo spazio esterno alla biosfera, il cyberspazio… ) con armi sempre più sofisticate: armi autonome come i killer robot, i droni, le ipersonde, i laser, le armi nucleari mobili mirate e a bassa potenza…
Come già scritto, il loro obiettivo non è “vincere le guerre” ovunque esse possano deflagrare (viene spesso ricordato che l’esercito Usa non ha più vinto una guerra sul campo dalla seconda guerra mondiale), ma di imporre l’ordine più conveniente alla propria parte (regno, stato, impero) anche in tempo di pace; la pace armata. La guerra, prima di essere distruzione e morte è un sistema socioeconomico che si basa sulla minaccia permanente (Si vis pacem para bellum), sulla subordinazione degli stati e dei popoli nemici, sulla sfida, sulla paura e sul terrore.
Le politiche di espansione economica basate sulla guerra comportano però evidenti costi e paurosi rischi. Il passo che separa le minacce dal “grido di guerra” può essere molto corto (Richard Cobden, 1817). Lo riconoscono anche oggi i principali interessati all’espansione economica. Il Word Economic Forum, il think tank di miliardari che si riunisce annualmente a Davos, elabora periodicamente uno studio interessante, il Global Risk Report 2023, in cui raccolgono le opinioni dei ceo e degli amministratori delegati dei grandi conglomerati industriali e finanziari. Lor signori si dichiarano molto preoccupati della “frammentazione geopolitica” in corso dopo l’entrata in crisi della globalizzazione e il risorgere di protezionismi nazionalistici. Scrivono: “La guerra economica sta diventando la norma, con scontri crescenti tra le potenze globali e l’intervento degli stati nei mercati nei prossimi due anni. Le politiche economiche saranno utilizzate a scopo difensivo, per costruire autosufficienza e sovranità delle potenze rivali, ma saranno anche sempre di più utilizzate in maniera offensiva per limitare l’ascesa di altre”. E così prosegue: “La recente impennata delle spese militari e la proliferazione di nuove tecnologie a disposizione di una gamma più ampia di attori porterà ad una corsa agli armamenti globale. Il panorama dei rischi globali a lungo termine potrebbe comportare conflitti multidominio e la guerra asimmetrica con il dispiegamento mirato di armamenti di nuova tecnologia su una scala potenzialmente più distruttiva di quella vista negli ultimi decenni. I meccanismi transnazionali di controllo delle armi devono quindi adattarsi rapidamente a questo nuovo contesto di sicurezza, per rafforzare i costi morali, reputazionali e politici che agiscono da deterrente ad un’escalation accidentale o intenzionale”.
Se è vero che la frammentazione e la rinazionalizzazione delle economie aumenta i rischi di conflitto tra gli stati impegnati nella tenuta delle loro aree di influenza, è pur vero che nemmeno la globalizzazione neoliberale dei mercati ha dato buona prova di sé nella pacificazione del mondo. L’ottimismo degli economisti liberali pacifisti si basa sulla fede incrollabile nel libero mercato. La loro antica tesi è che “lo spirito del commercio” e il desiderio delle masse popolari di un benessere materiale crescente siano il migliore antidoto alla dissipazione delle risorse economiche per sostenere le spese militari e le guerre. Da qui l’idea che maggiori scambi economici internazionali e più interdipendenza nelle produzioni dei beni di consumo porterebbe a diminuire i conflitti armati e obbligherebbe gli stati a mettere da parte le loro mire egemoniche e a favorire invece la creazione di accordi e istituzioni di regolazione dei mercati e dei commerci. L’idea di Keynes di un sistema di governace mondale imparziale dell’economia che attraverso gli strumenti finanziari fosse capace di “compensare” equamente e “livellare”gli squilibri tra le diverse aree geografiche del pianeta è miseramente fallita a causa delle politiche economiche messe in atto proprio da quelle istituzioni transnazionali che avrebbero dovuto prevenire e risolvere le controversie tra gli stati e le diverse aree del mondo. Pensiamo alla Banca Mondiale, al Fmi, al Gatt, al Wto e ai risultati delle loro azioni: massima concentrazione del comando economico attorno a poche compagnie conglomerate industriali e finanziarie transnazionali, da una parte, e disuguaglianze crescenti tra le popolazioni, le classi sociali, gli uomini e le donne, dall’altra.
Concludendo. Relazioni pacifiche stabili hanno bisogno di condizioni economiche equilibrate, convenienti per tutti. Fino ad ora né i modelli di liberalizzazione dei mercati a scala planetaria, né quelli protezionistici messi in forma dagli stati sono riusciti nell’intento di ridurre i conflitti armati. Probabilmente c’è un “baco” nel sistema economico, un difetto d’origine che rende questa economia strutturalmente inadatta alla pace. Non vorrei ripetere per l’ennesima volta il grido di dolore lanciato da papa Bergoglio: “Questa economia uccide”. Ma è l’unico capo di stato (sia pure basato su un ordinamento monarchico e patriarcale) ad aver indicato chiaramente il problema. Il conflitto di interessi è la caratteristica strutturale dell’economia di mercato capitalista. Essa si basa sulla rivalità tra le imprese per appropriarsi dei mezzi di produzione al più basso prezzo possibile (energia, materie prime, lavoro, tecnologie) e contendersi gli spazi di mercato di sbocco per le proprie produzioni. La competizione economica performa e condiziona anche i comportamenti umani individuali e interpersonali. Il motore di questa economia è l’avidità (profitto, accumulazione, rendite) e il risultato non può che essere ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli stati. La radice della guerra – se davvero la si volesse trovare per estirpare – va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione distribuzione e riproduzione oggi trionfanti ad ogni latitudine. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con gli altri diversi da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.
Per “ripudiare” la guerra è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, “war free”, prima di tutto. Fino ad ora l’economia bellica è stata il braccio armato dell’economia di mercato. Gli economisti della pace nel loro ottimismo ci dicono invece che sarebbe possibile ripensare l’economia togliendo il fucile dalla spalla del mercato. Vorremmo sperare fosse vero, ma non vediamo risultati.
Testo preparato per un’iniziativa promossa il 22 febbraio 2023 da Università della pace delle Marche e Associazione per la decrescita, presso l’Università di Macerata, dal titolo Oltre la guerra. Decrescita e Nonviolenza.
di Paolo Cacciari