Fuori dall’economia

Paolo Cacciari

l titolo dell’incontro (Felicità ai tempi della fine della crescita, promosso nell’ex Asilo Filangeri di Napoli)* ci suggerisce un movimento di uscita secca dal paradigma economico (vero dominatore della modernità, assieme a una sua parente stretta: la tecnologia) verso qualcos’altro, che rimane tuttavia ancora difficile da intuire e da immaginare.

Infatti, se l’economa è diventata “il tutto” (il fine e il mezzo della cooperazione sociale), se l’economicismo ha invaso ogni spazio del pensiero e dell’azione umana, così come l’economia politica ha fagocitato l’intera politica, allora la dimensione non-economica, ultaeconomica, l’aneconomico (per dirla con Derrida), è difficile persino da concepire, crea sgomento, come quando ci troviamo di fronte al vuoto e all’ignoto.

Per questo motivo “tattico” a molti oppositori del sistema economico dominante sembra più facile proporre la strada della “risignificazione” del campo semantico dell’economia, aggettivandolo, emendandolo e qualificandolo, piuttosto che abolire il sistema economico nella sua interezza. Fuoriuscire dal giogo dell’economa, come scrive Anselm Jappe, Uscire dall’economia. L’idea prevalente nei movimenti alternativi (anche in quelli più trasformativi, che sostengono che “un altro mondo è possibile”) è quella di far uscire la società da un determinato sistema economico (variamente qualificato come: liberista, capitalista, estrattivista, mercantile, statalista, patriarcale, etno e antropocentrico…) per farla entrare in un altro sistema economico (in una una nuova economia de-economicizzata, se così si può dire) che sia più socialmente connotato, più sostenibile, equilibrato, equo, inclusivo, capace di prendersi cura delle vite di tutte le persone (umane e non umane) presenti e future sulla faccia della Terra.

La tesi radicale che sostiene Serge Latouche nei suoi lavori più problematici e impegnativi di storia del pensiero economico, in particolare in: L’invenzione dell’economia, [Bollati e Boringhieri (2005) 201] è che non sia possibile uscire dalla crisi sistemica epocale della civiltà contemporanea senza mettere sotto accusa in toto il suo fondamento pratico e teorico: l’economia nel suo insieme e nella sua essenza (leggi anche Uscire dall’economia, ndr).

Non è facile entrare in questo ordine di idee, poiché siamo abituati a pensare all’economia come qualche cosa di indispensabile a soddisfare i bisogni fondamentali di ogni persona. Non è facile riuscire a immaginare una società che possa pensarsi libera dalla necessità di strutturarsi in funzione delle proprie esigenze di sussistenza e riproduzione, cioè principalmente materiali, se accettiamo una definizione ampia e generica di economia come “le attività e i mezzi volti a soddisfare i bisogni umani” (Ina Praetorius, L’economia è cura. La riscoperta dell’ovvio, IOD Edizioni, 2016). Anche Latouche ammette che sono sempre esistite pratiche economiche concrete, “sostanziali” (come le definiva Polanyi. Un filone ripreso e aggiornato recentemente dagli economisti che parlano di “Economia fondamentale”, in quanto “necessaria alla vita quotidiana”) volte alla sopravvivenza, alla produzione del “pasto quotidiano” e a soddisfare la “necessità naturale” di “fuggire in primo luogo il più grande dei mali che sono in natura: la morte” (Hobbes). Tant’è che persino nelle società animali – scrive con una punta di ironica polemica Latouche – potremmo individuare dei comportamenti “economici”, cioè utilitaristici.

Non è quindi questa l’economia (informale, consustanziale alla vita) da cui Latouche intende “uscire senza mezzi termini”. In realtà il campo semantico dell’economia (nell’immaginario sociale e nella realtà) è molto più complesso: investe tutte quelle attività che interagiscono con l’ambiente, che sono utili a fornire i mezzi materiali e i flussi di beni che permettono la riproduzione della società: produzione, circolazione, distribuzione, ripartizione, consumo … di beni e servizi, materiali e immateriali, fisici e simbolici.

Latouche vuole mettere sotto critica, demitizzare e decostruire il lungo processo (incominciando dalla Grecia antica, e sicuramente prima ancora) di invenzione di un ordine sociale all’intero del quale l’azione economica si separa progressivamente dalle altre condotte umane (religiose, familiari, amicali, comunitarie, conviviali, ludiche…), si autonomizza dalle altre forme di pensiero (si emancipa dalla filosofia morale), si dà un proprio statuto di presunta scientificità (al pari delle “scienze dure”, che studiano i fenomeni naturali), autodefinisce la propria essenza “naturale” e “universale” (indipendente dalla storia, dalle culture, dalle tradizioni specifiche dei popoli), crea le sue istituzioni (moneta, commercio, mercato, proprietà, lavoro retribuito…), elabora i presupposti ideologici su cui plasmare un idealtipo umano omogeneo: l’homo oeconomicus. Quella visione economica del mondo che conduce all’affermazione dell’individualismo ontologico e metodologico, del soggetto autonomo, sovrano, “animale desiderante” alla ricerca del piacere, della ricchezza, del potere esclusivo – per risalire ad Aristotele. Un processo alla fine del quale, l’economia trionfa, sia come pratica concreta che come teoria attraverso una successione di strappi e di accelerazioni impressionanti (legati soprattutto alle continue rivoluzioni tecnologiche generate dalle “sperimentazioni” in campo militare) e giunge a invadere tutto lo spazio sociale, a condizionare le relazioni interpersonali (a partire da quelle lavorative), riuscendo a imporre le sue logiche regolative, la sua morale, la sua etica utilitaristica, produttivistica, proprietaria. Con le conseguenze che ben abbiamo imparato a conoscere: predazione delle risorse naturali e distruzione della biosfera, sfibramento dei legami sociali solidali, diseguaglianze e ingiustizie, istupidimento, competitività, aggressività e violenza … L’homo oeconomicus è in realtà più lupus che sapiens (Thomas Hobbes va preso tragicamente sul serio).

Viviamo oramai in una società interamente “economicizzata”, dominata dalla ragione e dalla logica economica. Una società paneconomica. Una società di mercato capace di misurare, prezzare e mercificare ogni cosa e ogni relazione. L’economia è diventata la regina incontrastata delle scienze sociali. Il suo linguaggio calcolatore (crediti e debiti, costi e benefici, dare e avere …) è diventato universale, esclusivo. Altri tipi di valutazione delle cose e delle azioni che non siano monetari sono relegati in ambiti privati, non influenti sul piano politico.

In questa situazione facciamo quindi già molta difficoltà a ipotizzare l’esistenza anche solo di forme di economie “altre”, diverse dall’iperliberismo turbocapitalista. Figurarsi se riusciamo a immaginare un mondo non-economico, una società aneconomica. Capace, cioè, di soddisfare i propri bisogni senza ricorrere alle leggi auree dell’economia (domanda e offerta, plusvalore e investimenti, capitale e lavoro, rendite e salari, ecc.).

La sfida di Latouche (liberarci dall’antropologia economicista), quindi, è molto alta, investe nel profondo il sentire comune delle persone prima ancora che la teoria dell’economia politica. Tuttavia – egli afferma – è una battaglia ideale, culturale e pratica indispensabile da ingaggiare se vogliamo davvero uscire dal modello di civilizzazione occidentalizzante del mondo.

Non basta infatti dare all’economia “una colorazione verde o di socialità ed equità, immettendo dosi più o meno forti di regolazione statale o di ibridazione con la logica del dono e della solidarietà.” (p. XI). Bisogna andare a scalfire l’essenza del pensiero economico che è riduzionista, funzionalista, utilitarista, antropocentrica. E, aggiungo io, androcentrica e specista.

In questa opera di disvelamento dell’essenza dell’economia Marx e il marxismo non ci sono di grande aiuto poiché anch’essi “adottano il paradigma dell’uomo padrone e dominatore della natura”, mentre il socialismo “si accontenta di abolire la società borghese per consegnarla ai lavoratori” (p.71). Non basta socializzare i mezzi di produzione per uscire dall’angusto dominio dell’economico, Né distribuire in modo più equo i dividendi sociali, “a valle”.

Anche le affannose ricerche, oggi molto alla moda, di formule che promettono di rendere compatibili i business con l’ambiente e l’equità sociale (Environmental Social Governance, Corporate Social Responsability, Sustainable and Responsible Investment, Impact Investing, ecc.) appaiono del tutto inadeguate rispetto alla crisi sistemica, epocale in corso. Al massimo, le più avanzate e “innovative” proposte di riforma delle politiche economiche oggi sul tappeto (quando non sono palesemente delle truffe, Fake Sustainability) chiedono di regolare e responsabilizzare gli attori economici (il sistema delle imprese e della finanza) per riuscire a mitigare gli effetti più devastanti che i loro comportamenti causano alla biosfera, alle comunità umane e ai singoli individui. Si limitano a ipotizzare nuovi “modelli di sviluppo” (cioè di espansione della sfera economica), nuovi sistemi di business e di governance “multi fattoriali”, capaci di introiettare nei loro bilanci non solamente gli interessi degli azionisti, ma anche quelli degli abitanti della Terra. Tuttavia il traguardo della Triple Botton Line, che contempla Profit, People and Planet, si allontana sempre di più (vedi il Rapporto dell’European Environmental Bureau, Decoupling Debunked. Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability). Così l’economia si fa un po’ più “civile”, un po’ più “green”, più “bio”, un po’ meno sprecona e più “circolare”, più “inclusiva”, “condivisa” e “solidale”, persino più “umana”… Ma resta saldamente “economia”! Cioè, ancora ancorata ai parametri della ricerca della massima produttività dei fattori impiegati, del massimo rendimento dei capitali investiti… insomma dalla crescita! (Intesa come volume del valore monetario delle merci prodotte e scambiate, cioè del Pil). Questa è la legge ferrea non solo del capitalismo, ma dell’economia in quanto tale. Ci dice Latouche e, prima di lui, André Gorz, Claudio Napoleoni, Giorgio Ruffolo e altri ancora: l’economia è il campo dove si coltiva la crescita. Ed oggi (nell’Antropocene) l’umanità ha bisogno di tutto fuorché di crescere.

Tuttavia, per riuscire a comprendere il successo di questo modello di civiltà fondato sulla crescita economica (e cercare di trovare il modo in cui poterlo sconfiggere) ci dobbiamo chiedere quali sono le ragioni dell’avvento della teologia della crescita, della divinizzazione del denaro, del feticismo delle merci. Ritengo, molto banalmente, che ciò derivi dal fatto che per una parte non piccola delle popolazioni delle nazioni che per prime hanno imboccato la via della seconda rivoluzione industriale (fordista-keynesiana) la crescita economica ha coinciso con un aumento delle dotazioni materiali, un maggiore autonomia economica, un allargamento delle libertà civili e persino un senso di riscatto e di appagamento. La fortuna dell’egemonia culturale che ancora oggi esercita la American way of life resiste a dispetto della decadenza dell’impero che l’ha concepita.

Non riusciamo, quindi, ad immaginare un sistema di vita diverso. Ha detto un saggio: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” (Frase di difficile attribuzione, tra Slavoj Žižek e Fredric Jameson). Figuriamoci la fine dell’economia.

Siamo infatti rimasti incastrati in una società dove la nostra esistenza dipende oramai (quasi) completamente dalla nostra “capacità economica”, dalla solvibilità sul mercato, dalla disponibilità monetaria, dall’accesso al credito. Senza denaro non riusciamo a soddisfare le necessità più elementari. Tutto è a pagamento. Dall’accudimento dei bambini alle cure degli anziani, dal cibo alle medicine, dall’abitazione alla mobilità. Senza denaro ci sono solo le mense della Caritas! E i modi per procurarsi del denaro non sono molti: mettersi sul mercato e rendersi disponibili a qualsiasi tipo di prestazioni in cambio di compensi.

Le nostre società “tardomoderne” sono entrate in un circuito paradossale: per salvare la Terra (conversione ecologica, mitigazione, adattamento…) e per arrivare anche alla fine del mese (parafrasando lo slogan dei gilet gialli) servono più soldi, più investimenti, più lavoro retribuito, più occupazione. Per avere le risorse necessarie a riconvertire le produzioni energetiche e ridurre le povertà è stato calcolato che il Pil dovrebbe crescere di 3 o 4 punti all’anno. La politica viene quindi chiamata a creare le condizioni (stimoli, incentivi, opportunità, infrastrutture …) affinché si investano capitali, si produca e si consumi sempre di più. Dimenticando che le leggi ferree dell’economia ci hanno insegnato che per fare più utili serve abbattere i costi dei fattori di produzione a iniziare dalla terra e dal lavoro, dal prelievo delle risorse naturali e dal costo del lavoro degli esseri umani. Il cane finisce così per mordersi la coda. Tra crescita e sostenibilità – nel cotesto economico – si instaura un “doppio legame” schizoide. È impossibile ottenere ambedue le cose. Ogni punto di Pil – calcolava anni fa Giorgio Nebbia – si porta con sé 893 milioni di tonnellate di materia estratta dalla natura. La fisiologia dell’economia dei soldi è diversa da quella del’economia della natura, se così possiamo chiamare i complessi cicli bio-geo-chimici che regolano e rigenerano la vita sulla Terra. Possiamo immaginare di “efficientare” i cicli produttivi, i trasporti, le abitazioni… ma è impossibile ipotizzare alla “angelizzazione del Pil” (la battuta è di Herman Daly, l’autore di Beyond Growth), cioè ad una completa de-materializzazione delle merci. Per sperare di contenere le emissioni di gas climalteranti, ad esempio, è stato calcolato che i paesi ricchi dovrebbero diminuire i loro consumi di circa il 6 per cento ogni anno. L’antropologo Jason Hickel (The Divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, il Saggiatore, 2018) ha scritto che una strategia di ridimensionamento dei consumi di tale portata si può trasformare in un collasso socio-economico se ogni paese non adotta una politica di decrescita. Cioè una politica di riduzione mirata, programmata, condivisa delle attività antropiche.

I libri di Latouche e di molti altri economisti non ortodossi, ci spiegano che il libero mercato non è mai esistito. Che la competizione tra gli agenti economici non si compone in nessuno spontaneo equilibrio. Che gli interessi egoisti dei singoli individui non generano alcun bene comune. Che la “mano invisibile” è in realtà manovrata dal braccio di ferro del mostro Leviatano. Che il benessere conta, ma conta anche come lo si raggiunge e a quale prezzo. Che l’economia non è affatto la regola di vita generale razionale, logica, imparziale, asettica, “scientifica” a cui ogni essere umano è tenuto a conformarsi per raggiungere l’armonia e la felicità di tutti. Ma è solo uno dei tanti campi di battaglia (oltre a quelli giuridico, medico, urbanistico, artistico, politico …) dove si confrontano visioni del mondo, sistemi di valori, interessi e rapporti di forza contrastanti.

L’economicizzazione della società (resa possibile grazie alla ideologizzazione dell’economa politica) è stata funzionale agli interessi dei ceti sociali dominati. L’economia è stata forse la principale arma che ha consentito di perpetuare il potere delle classi dei possidenti e di subordinare le altre.

Uscire dalla logica economica – magari per gradi – significa quindi imboccare una strada di liberazione e di emancipazione politica. Oltre che di riparazione del buon funzionamento della biosfera. Per incominciare a intraprendere questa strada occorre però riuscire a sostituire all’utilitarismo produttivista e consumistico altri parametri di riferimento, altri paradigmi antropologici, altri valori ideali, quali: la cooperazione, la solidarietà, la reciprocità, la mutualità… attraverso l’empatia. Oltre alla “economia della natura” va messa in campo l’“economia dei sentimenti”, rivalutando il libro dimenticato di Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali), li dove scriveva che “una società è fiorente e felice” quanto più stretti sono i vicoli dell’affetto, i legami di gratitudine, l’assistenza e l’amore reciproci e disinteressati.

Non so se in una società del genere potremo ancora chiamare “economiche” le azioni e le politiche volte agli obiettivi della riduzione degli impatti ambientali, della diminuzione delle diseguaglianze sociali, della cura delle relazioni umane, dell’aumento delle capacità di autogoverno delle comunità locali, della realizzazione delle persone. O se dovremmo chiamarle semplicemente attività di cura di sé, degli altri, del mondo. Come ha scritto Ina Praetorius: “forme di esistenza tra cura, arte ed ecologia”.

*Questo testo è stato preparato per un intervento all’incontro del 10 e 11 gennaio 2020 “Felicità ai tempi della fine della crescita“, promosso all’ex Asilo Filangeri di Napoli all’interno del laboratorio di studi “Ecologie politiche del presente”

Fonte: Comune-Info

Share