Caro Jean Robert

di Aldo Zanchetta

Un breve ricordo dell’approccio alla vita (perfino alla sua fine, che ne è parte sostanziale), all’idea di libertà e all’insegnamento di un grande architetto, filosofo e urbanista svizzero migrato in Messico. Tra le mille altre esperienze di un’esistenza lunga e vissuta con straordinaria intensità, sulla base di lunghi decenni di docenza universitaria, Jean Robert era uomo capace di re-imparare ad imparare diventando, per esempio, semplice alunno della scuoletta zapatista della libertà all’età di 76 anni. Non è stato solamente uno dei grandi amici e dei migliori collaboratori di Ivan Illich ma ne ha condiviso in pieno, da protagonista, quella che è probabilmente la più acuminata critica alle istituzioni della modernità che fino ad oggi si conosca. Se sollecitato a definirsi, Robert propendeva per il ruolo di intellettuale de-professionalizzato, un’altra, diversa declinazione della libertà di cui sopra che sceglie anche Gustavo Esteva, altra preziosa punta di diamante di quel gruppo illichiano che i lettori di Comune trovano abitualmente su queste pagine fin dal loro inizio. Un altro straordinario nostro compagno di avventure, Aldo Zanchetta, che ha conosciuto piuttosto da vicino e ormai molti anni fa i testi e l’amicizia conviviale di questo gruppo, ci offre un’ultima testimonianza esemplare della corrispondenza con un Robert, ammalato e prossimo alla fine, ma rasserenato dalla pubblicazione in italiano, proprio grazie ad Aldo, di un libro importante come L’età dei sistemi nel pensiero dell’ultimo Illich. Con un estratto tratto dal suo “Sussistenza, autonomia, libertà. Che cos’è la libertà?”

A fine agosto, lasciando a metà un’intervista via internet che gli avevo chiesto sull’ultimo suo libro, perché ormai esausto, Jean Robert con serenità mi avvisava che l’ora stava giungendo. Una breve mail : “Come diceva Ivan Illich, ‘mi trovo nell’anticamera’. La mia compagna ed io lo affrontiamo abbastanza bene e abbiamo vissuto bei momenti assieme. Una vita giunge al termine (corsivo suo, nds). Il libro del giovane sacerdote Ivan, pubblicato alla PennState (Università della Pennsylvania, nds) col titolo Una Chiesa senza Potere[1] mi dà serenità. Ti ringrazio per tutto quello che la tua amicizia mi ha dato. Jean”.

Un saluto semplice e sereno. Il ringraziamento si riferiva in particolare alla pubblicazione del suo libro “L’età dei sistemi nel pensiero dell’ultimo Illich“. Libro a cui teneva molto per dissipare interpretazioni non sempre corrette del pensiero del suo grande maestro ed amico. Già ammalato, non trovava gli stimoli sufficienti a terminarlo perché esitava a proporlo ad editori francesi, lingua in cui lo stava scrivendo. Temeva un rifiuto perché in Francia l’ultimo Illich, con la sua critica alla pura razionalità, aveva suscitato perplessità fra molti dei suoi estimatori abituali.

Nell’introduzione al libro, Jean Robert ricorda che un intellettuale francese, già molto vicino al pensiero di Illich, gli rimproverava di non avere mantenuto la sua critica nel quadro di quel tipo di razionalità. Si sarebbe aperto a troppe influenze “irrazionali”, e per questo i suoi amici e collaboratori degli ambienti del Politecnico si sarebbero allontanati da lui. Alcuni dicono che «ciò che scrisse dopo il 1980 non merita di essere letto”. 

Intuito il suo desiderio e la sua pena, grazie a una editrice sensibile ed a una traduttrice capace e volenterosa, il libro venne pubblicato in Italia nel giro di pochi mesi (ottobre 1919), e questo lo riempì di gioia. Non potrà invece vedere le edizioni tedesca e spagnola nate sulla scia di quella italiana, ma ne aveva avuto notizia.

Nell’estate del 2013 le comunità zapatiste, nella loro inesauribile creatività, ospitarono circa 1500 partecipanti stranieri alle escuelitas che esse avevano organizzato per loro, aventi come tema di riflessione La libertà. Fra gli ospiti era presente l’amico Jean Robert, che a seguito di quella esperienza scrisse una breve riflessione pubblicata in Italia nei Quaderni di Abya Yala col titolo Sussistenza, autonomia, libertà. Che cos’è la libertà? Ne riportiamo un breve estratto, il testo completo in pdf, grazie a Camminar Domandando – è invece al link qui sopra.

E voi, siete liberi ?

Durante i corsi di quest’estate all’escuelita zapatista, i mae­stri indigeni domandarono ai loro allievi, per lo più originari delle città: «e voi, siete liberi? Vi sentite liberi?». Avevano appena esposto il senso della libertà degli zapatisti, strettamente legato alla capacità di provvedere ai propri bisogni.

Come molti degli allievi di quel primo corso pensavo che, se volevo rispondere all’atto di generosità dei nostri amici, che ci avevano aperto le loro comunità, i loro caracoles, [2] i loro spazi comuni, dovevo agire là dove io vivo. Sì, ma come? Con quali atti concreti? Ho pensato che, come gli zapatisti si sono sforzati di farci capire il loro modo di vita, così noialtri che viviamo in città potremmo fare qualcosa di simmetrico per loro: presentare una specie di diagnosi della vita nei grandi centri urbani all’inizio del XXI secolo, nell’epoca della tarda modernità.

La differenza, o dovrei piuttosto dire l’alterità, delle nostre rispettive situazioni consiste nel fatto che i nostri anfitrioni hanno in gran parte scelto la loro, mentre noi, collettivamente, subiamo la nostra. La mia versione dell’altro lato è la descrizione di una situazione alienata, nel senso che non possiamo riconoscerla come il frutto delle nostre intenzioni. Una situazione, inoltre, in cui alcuni godono di privilegi fondati sul lavoro degli altri. Godere di questi privilegi non è essere liberi.

In origine, questa versione del mio scritto era destinata a una tribù universitaria della metropoli, da cui il mio sforzo di parlare la loro lingua, come si evince dall’abbondanza di note. Mi impegno a scrivere un giorno una versione più corta e senza note. Quello che spero è che una visione anche parziale dei due lati, il nostro e il loro, loro e noi, possa contribuire a stabilire una nuova forma di senso comune. Un senso comune binoculare, in prospettiva? Forse. Preferisco dire un senso comune contromano, sempre in cerca di situarsi sul crinale tra due versanti della realtà. Questo luogo difficile non è utopico, non è ‘senza luogo’. Definisce il suo luogo con l’atto di avere-luogo: è così che interpreto l’apertura zapatista. Un’apertura che crea localizzazioni dotate della vocazione di rispondere ad altre localizzazioni.

Ho elaborato la mia riflessione sul «modo di vita urbano nella tarda modernità» secondo quattro assi:

I.     La guerra dello Stato e del Mercato contro la sussistenza

II.    L’alienazione e il declino dell’autonomia

III.   Definizioni: modernità, modernizzazione, occidentalizzazione

IV.   Genealogia della coercizione industriale.

I. La guerra contro la sussistenza

Per una storia ragionata delle perdite

Tutta l’epoca moderna è una guerra contro la sussistenza. È una guerra contro i popoli, contro ‘chi sta in basso’, per impedirgli di sussistere senza seguire le istruzioni dello Stato e senza dipendere dalle merci comprate sul Mercato. La modernizzazione (secondo un’accezione radicale del termine che non pretende di essere l’unica), cioè l’atto di rendere mo­derno, è un progetto di trasformazione dei popoli che spossessa i poveri delle loro abilità innate e rende i ricchi più ricchi. Ivan Illich chiamava disvalore questo progressivo espropriare i popoli delle loro capacità e questo trasferimento di privilegi su individui avidi di arricchirsi. Il disvalore è l’ombra negativa del valore. È la paralisi delle capacità autonome, che rende le persone dipendenti da merci e servizi eteronomi, cioè prodotti da istanze esterne, altre, lontane e spesso anonime.

A partire dalle espropriazioni violente del tempo dell’ac­cu­mulazione primitiva (iniziato nel XV secolo in Europa) il disvalore divenne il grado zero dell’accumulazione: quella distruzione originaria di capacità che permise di innescare la spirale dei bisogni creati, distruttori di abitudini innate, e la generazione di nuove dipendenze. In questo senso, il disvalore è un processo lento e progressivo di distruzione di autonomia. Potremmo anche dire che provoca l’erosione di quella qualità, diversa dal potere, che il filosofo Spinoza (1632-1677) chiamava potentia (potenza), che è disposizione inalienabile a fare o non fare, autonomia allo stato nascente.

La lenta modernizzazione dei popoli e l’indebolimento parallelo della loro autonomia hanno diviso il mondo tra un Nord ricco e un Sud povero e in parte miserabile, un divario che si riproduce in entrambi i campi, poiché il Nord ha un proprio ‘Sud’ e il Sud un proprio ‘Nord’ scandalosamente ricco. Questi due campi opposti hanno una caratteristica in comune: l’erosione della loro autonomia, della loro potenza, e la dipendenza, più intensa tra i ricchi che tra i poveri, da iniezioni crescenti di disvalore, il che comporta che nuove disuguaglianze si sostituiscono senza posa alle vecchie gerarchie. Non senza rigore, i due autori di un pamphlet che circolò in Francia (Rahnema e Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book 2010) definirono così la correlazione tra dipendenza crescente dal Mercato e perdita di autonomia: più ci si ingozza di merci, più si perde autonomia. Questa dipendenza è il sintomo di una sindrome di immunodeficienza culturale acquisita (cfr. Rahnema, «Development and the People’s Immune System: the Story of Another Variety of AIDS», 1997). Correlativamente a questa perdita di autonomia, la modernità si accompagna a un processo di polarizzazione sociale, cioè di aumento costante della forbice tra ricchi e poveri, quelli «di sopra» e quelli «di sotto», come dice in parole semplici il Subcomandante Marcos. E più i ricchi e i poveri diventano dipendenti dal Mercato, più si intensifica la polarizzazione delle loro rispettive condizioni, come a camuffare la miseria comune.

Questa visione ipercritica non è, beninteso, quella dei libri di storia ufficiali, nei quali la modernità è descritta come una conquista ininterrotta di nuovi diritti e libertà, di scoperte di ogni genere e di ricchezza materiale crescente. La storia ufficiale è un’epopea di vittorie sulle ‘zavorre’ della tradizione, i ‘ritardi’ del passato e il ‘sottosviluppo’ delle forme tradizionali di organizzazione economica e politica. La storia ufficiale è una narrazione retroattiva dei trionfi dello Stato e del Mercato. È retroattiva perché, mettendo la situazione attuale come punto d’arrivo di tutti i movimenti della storia, esamina come in un retrovisore gli apporti di ogni epoca alla situazione moderna, dimenticando non solo le perdite, ma anche le formazioni che, senza condurre alla situazione moderna, incarnarono lo spirito di altre epoche.

La storia ufficiale è una storia totalizzante dello sviluppo di tutto ciò che, oggi, è considerato buono: l’Educazione, la Salute, il Progresso, la Comunicazione, il Mercato-mondo, lo Sviluppo e, beninteso, il Valore. La storia ufficiale si presenta come una storia dello sviluppo di forme di guadagno e di accumulazione di potere nell’unica dimensione che conta, quella del valore, criterio di valutazione di ogni guadagno e progresso.

Questa storia è cieca rispetto alle perdite che possono aver sofferto i popoli nel corso degli ultimi cinque secoli. Per esempio, esistono alcuni lavori di ‘storici delle perdite’ tedeschi che documentano la contrazione del vocabolario dei gusti, degli odori e delle sensazioni tattili nelle principali lingue europee nel corso dell’ultimo mezzo millennio. «I1 tedesco antico aveva tre volte più parole del tedesco moderno per ‘fragranza’. Sono convinto che il crescente monopolio della dimensionalità cartesiana sulla percezione sensoriale dello spazio abbia indebolito o estinto il senso dell’esalazione» (Illich, Œuvres complètes, vol 2, 2005, p. 536, nota 36).

Queste perdite attestano un impoverimento progressivo delle percezioni: una perdita enorme, poco documentata dagli storici. I capitoli che la storia ufficiale dedica allo sviluppo delle idee sono ricchi e dettagliati, ma quelli che trattano della storia delle percezioni o della storia del corpo percepito, che è uno dei suoi capitoli, sono praticamente vuoti.

Le perdite più gravi registrate nel corso degli ultimi cinque secoli concernono le forme tradizionali di sussistenza ancorate nella cultura materiale di ogni società. Qui, la perdita dei termini che permettono di concepire la perdita fa parte della perdita stessa: quando spariscono i termini differenziati che distinguevano gli odori e i sapori, diventa difficile documentare l’indebolimento delle percezioni corrispondenti. Così, quando il linguaggio degli economisti relegò nel limbo del sottosviluppo i termini che permettevano di esprimere le diverse maniere in cui i popoli provvedevano al proprio sostentamento, in che modo si può ancora parlare della sussistenza come di una modalità della cultura materiale, radicalmente diversa da tutto quello che designa oggi la parola economia?

Non si tratta affatto di abolire completamente il racconto dei benefici e degli sviluppi della storia ufficiale. La cura della carie dentaria o della presbiopia – per non parlare dei bagni in casa – sono conquiste alle quali le persone della mia età non rinuncerebbero facilmente, ma bisognerebbe reintegrarle come correttivi di una storia che non sia cieca davanti alle perdite di vivacità della percezione del mondo e della presenza carnale nel mondo. I secoli della modernizzazione, che Karl Polanyi qualificò come «grande trasformazione» (Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974, originale 1957), furono per Illich, lettore attento della sua opera, un’epoca di guerra impietosa da parte del Mercato e dello Stato nascente alla sussistenza delle persone che stanno ‘in basso’. Occorre meditare su questa affermazione.  J.R.

[1] Il libro, contenente una selezione di scritti di Illich dal 1955 al 1985, è stato pubblicato nel 2019.

[2] N.d.t. – I caracoles (chiocciole) sono qualcosa di simile a ‘capoluoghi amministrativi’ della costellazione di comunità zapatiste, dove hanno sede le «Giunte di buon governo» e dove vengono accolti i visitatori. In tutto attualmente sono 12.

Fonte: Comune-Info

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